L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA Atto unico di Luigi Pirandello
Rappresenta, nella drammaturgia pirandelliana, uno dei momenti più alti. Innanzitutto, per la
pregnanza di significato che emerge da una vicenda di assoluta semplicità e limpidezza. Tale
vicenda si dipana attraverso il breve dialogo di due soli personaggi, l’Uomo dal fiore in bocca
appunto, e il distinto signore, l’Avventore, che il primo incontra. Incalzato dalle domande
dell’Uomo, l’Avventore confessa il proprio fastidio nei confronti della moglie e della figlia che lo
caricano di incombenze e lo trascinano nella pratica noiosa delle spese e nella disbriga quotidiana di
affari poco importanti. L’Uomo risponde allora con una minuziosa descrizione di quegli stessi
avvenimenti in cui è fastidiosamente coinvolto l’Avventore e rivelando a costui a poco a poco tutta
la necessaria importanza che quelle piccole cose tornano a possedere per chi, come l’Uomo, è
avviato in breve alla tragica conclusione della propria vita e ne è consapevole. Quel “fiore in
bocca”, infatti, significa morte, dolorosa fine dell’esistenza. Ciò che contraddistingue l’atto unico è,
ancor più della contrapposizione “vita – morte”, la contrastante dinamica dialettica tra “vivere e
sopravvivere”; meglio, tra un vivere apparente (l’Avventore) che è, in realtà, un sopravvivere agli
eventi, un quotidiano “campare”, un “tirare avanti” fra minimi fastidi ed irritante quotidianità, e un
apparente sopravvivere (l’Uomo), che è in realtà un vivere (o un tentativo di vivere) pienamente,
disperatamente aggrappandosi proprio a quei fastidi, a quella quotidianità, altrove ritenuta irritante,
ma che tale non viene considerata da chi sa coscientemente di perderla giorno dopo giorno. Dunque,
la morte e la consapevolezza della fine imminente illuminano il valore della vita, riscoperta nei
dettagli senza senso, nelle pieghe degli affetti familiari, nel fluire incessante dei giorni e delle
abitudini che ad essi si accompagnano e a cui, solitamente, non attribuiamo “importanza”. E’
significativo che la più torturante e torturata pièce di Pirandello, la più tragica, non si svolga proprio
nella “stanza della tortura”, come ebbe a definirla Giovanni Macchia, le quattro pareti domestiche
in cui si consumano altre varie vicende pirandelliane più o meno drammatiche, e che, invece, essa si
sviluppi “all’aperto”, alla luce crepuscolare: forse perché lo scontro, il conflitto vero tra vita e
morte, tra realtà e apparenza, non può che generarsi in un “aperto” infinito, senza confini, senza
tempo.
LA PATENTE Atto unico di Luigi Pirandello.
Rosario Chiàrchiaro è un disgraziato padre di famiglia cui è stato misteriosamente
attribuito il potere di jettatore. Bollato dalla società col marchio di menagramo, a
causa di questa nomea è costretto insieme con la moglie e le due figliole a vivere in
isolamento perdendo il posto di lavoro e riducendosi alla fame. Chiàrchiaro non si
piega e invece di negare l’infame calunnia fa ogni sforzo per convalidarla
convincendo il giudice D’Andrea che non solo la jella esiste, ma che lui è uno
jettatore autentico e vuole la patente a riconoscimento di questa sua particolare
professione. Egli infatti non può più guadagnarsi da vivere se non codificando la sua
fama di jettatore, facendosi riconoscere ufficialmente